Rispetto ai mesi primaverili, nel
periodo attuale, al fine di contenere la
trasmissione del Sars Cov 2, sono state
intraprese molte misure precauzionali in comune tranne quella della chiusura
delle attività produttive. Tale condizione favorita da una normativa non
aggiornata e in contrasto con le
evidenze scientifiche, da un sistema
sanitario carente dal punto di vista dell’organico e con
elevata pressione, ha determinato il problema del reintegro dei lavoratori
positivi e senza sintomi dopo 21 giorni.
Il reintegro progressivo dei lavoratori in azienda , dopo l'infezione da
COVID19, è disciplinato dal DPCM attraverso il punto 12 del protocollo
condiviso di regolamentazione del 24
Aprile 2020, e deve avvenire
rigorosamente dopo la certificazione di avvenuta negativizzazione del tampone .
La successiva Circolare del Ministero della Salute del 12
Ottobre 2020, in merito ai casi positivi
a lungo termine, stabilisce “che le persone che, pur non presentando più
sintomi, continuano a risultare positive al test molecolare per SARS-CoV-2, in
caso di assenza di sintomatologia (fatta eccezione per ageusia/disgeusia e
anosmia ) da almeno una settimana, potranno interrompere l’isolamento dopo 21
giorni dalla comparsa dei sintomi.
Questo criterio potrà essere
modulato dalle autorità sanitarie d’intesa con esperti clinici e
microbiologi/virologi, tenendo conto dello stato immunitario delle persone
interessate (nei pazienti immunodepressi il periodo di contagiosità può essere
prolungato).”
Da discussioni con gli addetti ai
lavori, per vari motivi ( non generalizzo)
ho l’impressione che indipendentemente
dalla conoscenza dello stato immunitario, al cittadino positivo senza sintomi
da una settimana , dopo 21 giorni , in
non pochi casi "automaticamente" viene interrotto il periodo di isolamento.
Se è vero quanto sopra riportato
e se il cittadino è anche lavoratore il medico competente si trova nella condizione
di dover a.) decidere se applicare il DPCM
o la circolare del Ministero della
Salute ( Da un lato è necessario un tampone negativo, dall'altro lato no), b. ) e
se il lavoratore può ancora trasmettere il virus a causa di immunodeficienze
non valutate.
Per la condizione b, le maggiori
preoccupazioni sono indirizzate ai
lavoratori che svolgono attività in contato con soggetti immunocompromessi a
causa di :
·
AIDS, linfoma, leucemia, chemioterapia,
trattamenti anti-TNF, ecc.);
·
soggetti
con precedenti di trapianto, bypass digiuno-ileale, ilo-ileale,
gastrectomizzati;
·
soggetti affetti da insufficienza renale cronica
o emodializzati;
·
soggetti affetti da diabete insulino-dipendente
o silicosi.
·
ecc
Ora se il DPCM è un “dispositivo
di legge” superiore alla Circolare del Ministero della salute, non è possibile reintegrare il lavoratore in azienda, infatti è necessario l’acquisizione
di un certificato di negativizzazione del TNF tra l’altro rilasciato dal
Dipartimento di Prevenzione. Per
risolvere il dubbio sarebbe necessario una modifica del protocollo di
regolamentazione o comunque un parere della giurisprudenza.
In assenza di una soluzione
normativa, ritenuta la “pressione” per il reintegro in azienda del lavoratore, esercitata sui medici competenti sia dai datori di lavoro che dai lavoratori, il medico competente viene a trovarsi nella
condizione di “1. non rispettare” il DPCM 2. tutelare la salute di terzi 3. “proteggersi” per gli eventuali successivi risarcimenti di danni
biologici.
Se viene soddisfatto il secondo
punto del paragrafo precedente, non dovrebbero esserci ripercussioni ne sul
primo ne sul terzo punto.
Una soluzione per tutelare la
salute dei terzi potrebbe essere quella della richiesta del certificato
anamnestico al Medico di Medicina Generale, ponderando l’informativa sullo
stato immunitario del lavoratore.
In assenza di una condizione di
immunodepressione, contro il DPCM il lavoratore positivo oltre i 21 giorni
con assenza di sintomatologia di una settimana "potrebbe "essere “reintegrato” in
azienda con la prescrizione di misure preventive e protettive
supplementari rispetto a quelle già attuate.
Nei casi “borderline” o comunque nei
casi di sospetta immunodepressione il medico competente potrebbe chiedere una consulenza
specialistica.
Anche per tale aspetto la
normativa attuale non aiuta, infatti il DPCM
stabilisce, si una visita di
reintegro ,ma non fa alcun cenno ad accertamenti supplementari e ne ancora la visita all’art. 41 del D.Lgs
81/08.
Pertanto si pone il dubbio di chi paga il costo della
consulenza.
Se il Datore di lavoro è d’accordo a saldare
la consulenza specialistica il problema è risolto, altrimenti la soluzione potrebbe essere quella di
informare il lavoratore sulla necessità di chiedere la visita medica per sopraggiunti motivi di
salute ai sensi dell’art. 41, comma 1 lettera b.
Se viene attivata tale procedura
il costo è a carico del datore di lavoro ai sensi dell’articolo 39, comma 5 del
D.Lgs 81/08.
Quando riportato è solo una
riflessione, uno spunto su cui basare una discussione e stimolare altre
soluzioni
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